Tra i crimini di massa perpetrati dalla Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale, il genocidio dei sinti e dei rom, spesso impropriamente definiti come “zingari”[1],costituisce un fenomeno ancora poco studiato e conosciuto.
Le stime delle vittime restano ancora oggi imprecise per lo stato di frammentazione delle fonti e a seguito della distruzione di molti documenti da parte dei nazisti. Il bilancio oscilla, a seconda delle ricerche, da un minimo di 200.000 a un massimo di 500.000 morti.
I rom e i sinti chiamano il proprio genocidio Porajmos, o Porrajmos che in lingua romanì significa “grande divoramento”.
Ceija Stojka nasce il 23 maggio 1933 a Kraubarth, in Stiria, da una famiglia austriaca rom di religione cattolica, quinta di sei figli (tre sorelle, Maria, Katherine e Ceija, e tre fratelli, Hans, Karl e Josef, detto “Ossi”), che conduce una vita nomade. I Stojka appartengono alla minoranza rom dei Lowara (o Lovara) che tradizionalmente vive commerciando cavalli e spostandosi da un luogo all’altro a seconda delle stagioni: l’inverno a Vienna, quando la famiglia parcheggia il suo carro in uno dei campeggi della città, d’estate, nelle campagne austriache.
Secondo la tradizione rom, i figli prendono il cognome materno. Il padre di Ceija si chiama Karl Wackar Horvath e la madre Sidonie Rigo Stojka
Con l’annessione dell’Austria (marzo 1938) la famiglia Stojka è oggetto, come tutti i sinti e i rom che vivono nel Reich, di una serie di misure discriminatorie. Costretta alla sedentarietà, la famiglia vende il proprio carro per stabilirsi in una minuscola casetta di legno. Nei primi anni del regime nazista, i sinti e i rom vengono considerati soprattutto una “piaga sociale”, ovvero un problema di ordine pubblico e sono ritenuti degli elementi estranei alla Volksgemeinschaft (comunità del popolo) perché considerati “asociali”. Il nomadismo è considerato, infatti, un gene ereditario e la prova dell’incapacità di adattarsi alla vita sociale della comunità germanica. Tuttavia, l’ostilità e il disprezzo contro questa minoranza (di cui i sinti e i rom sono solo i gruppi più numerosi e conosciuti) sono anteriori al nazionalsocialismo e si erano alimentati di vecchi pregiudizi e stereotipi che non tenevano conto della realtà. Ad esempio, solo alcuni sinti e rom erano effettivamente nomadi e vivevano in gruppi che si spostavano con carovane. Inoltre, l’idea diffusa che gli “zingari” fossero ladri, truffatori e mendicanti non trovava conferma nelle condizioni prevalenti della maggioranza che invece viveva di lavori manuali come la lavorazione del ferro, di allevamento o di commercio di bestiame (cavalli soprattutto), oppure si guadagnava da vivere con il loro talento di musicisti e circensi.
Già nel 1935 il regime nazista stabilisce l’internamento degli “zingari” tedeschi e prevede di sterilizzarli in massa. Tuttavia la politica di persecuzione contro questa minoranza viene applicata in maniera discontinua, soprattutto per le contraddizioni ideologiche sulla purezza originaria della “razza zingara” che rendono difficile individuare gli elementi “puri” da quelli di “sangue marcio”.
Mentre l’ideologia nazista considera gli ebrei dei “non ariani”, appartenenti ad una razza non solo inferiore e degenerata, ma estranea al genere umano (Gegenrasse, contro razza), la visione del popolo degli “zingari” si basa su presupposti diversi perché viene teorizzata la loro origine indoeuropea e ariana. Tuttavia, nel corso dei secoli e delle lunghe migrazioni, gli “zingari” sono venuti a contatto con altri popoli di “razza inferiore”, compromettendo, quindi, la loro purezza. Per questo, il nazismo li considera nemici della comunità del popolo in quanto“ariani degenerati”, ovvero un miscuglio di razze deteriorate, e portatori del Wandertrieb, il gene del nomadismo che contrasta con l’ideale di vita promosso dalla Germania di Hitler.
Nel 1936, Robert Ritter, psicologo infantile all’Università di Tubinga e specialista di biologia criminale, viene nominato Direttore del Centro per la Ricerca sull’Igiene Razziale che fa capo al Ministero della Sanità del Reich. Da quel momento, Ritter diventa una figura centrale nell’evoluzione della politica contro i rom e i sinti perché si dedicherà insieme alla sua assistente Eva Justin allo studio di migliaia di rom tedeschi, sottoponendoli ad esami antropometrici e psicologici per determinarne i “caratteri razziali ereditari e patologici”. L’obiettivo è di analizzare il livello di purezza del “sangue zingaro” e determinare i caratteri patogeni ereditari negli individui non più puri.
Sulla base di questi studi, due anni dopo Himmler emana il famoso decreto contro la "piaga zingara", come anticipo di una legge specifica che non verrà mai adottata. Il decreto distingue nettamente tra zingari "puri" e Mischlinge (misti). L’8 dicembre 1938, Heinrich Himmler, capo delle SS e della polizia nazista, stabilisce l’obbligo di registrazione di tutti i membri dell’etnia “zingara” presso appositi elenchi stilati dalla polizia criminale.
L’idea del regime, in quel momento, è di separare gli “zingari” ariani dagli altri, allo scopo di avviare, una volta scoppiata la guerra, un reinsediamento di massa degli elementi impuri (Mischlinge) che dovevano essere deportati in massa e rinchiusi in campi di lavoro forzato o ghetti insieme agli altri “zingari” rastrellati in loco.
In tutto il Reich, centinaia di sinti e rom tedeschi vengono imprigionati nei campi di concentramento dove sono sottoposti ad un trattamento durissimo.
Nel 1941, il padre di Ceija è rinchiuso nel campo di Dachau, lasciando la moglie sola a prendersi cura di sei figli. L’anno seguente Karl Wackar viene assassinato nella camera a gas del castello di Hartheim, uno dei centri di eutanasia co gas che dopo aver assassinato decine di migliaia di handicappati fisici e mentali del Reich servirono per eliminare i prigionieri malati dei campi di concentramento.
Nel frattempo, la persecuzione contro i sinti e i rom diventa sempre più radicale. Nel settembre 1942, pochi mesi dopo la morte di Heydrich, Himmler blocca il decreto sui reinsediamenti e ordina un approfondimento sulla condizione razziale degli zingari che lo porta a considerarli elementi degenerati razzialmente e incompatibili col popolo germanico ariano. Nei territori orientali occupati, intere famiglie sinti e rom vengono rastrellate insieme agli ebrei e fucilate in massa.
L’8 dicembre 1942, Himmler, col "decreto Auschwitz", assume la decisione di deportare sistematicamente tutti gli “zingari” dei Reich e i Mischlinge ad Auschwitz per eliminarli fisicamente. L’anno 1943 si apre, quindi, con deportazioni di massa dalla Germania e dall’Austria, dal Protettorato di Boemia-Moravia, dall’Alsazia e Lorena, ma anche dal Belgio, dal Lussemburgo e dall’Olanda e, successivamente, dalla maggior parte dei Paesi europei occupati.
La famiglia Stojka viene deportata ad Auschwitz nel marzo 1943,insieme a circa duecento membri del suo grande gruppo famigliare.
Dal mese precedente, il campo di Auschwitz-Birkenau è stato attrezzato con un’apposita sezione destinata a rinchiudere le “famiglie zingare” (Zigeunerlager). I deportati sinti e rom, a differenza degli ebrei, non vengono quindi selezionati all’arrivo, divisi tra uomini e donne, e poi tra abili e inabili al lavoro coatto, ma i gruppi famigliari vengono tenuti insieme. Ceija viene tatuata sul braccio col numero Z-6399 (la lettera Z è l’iniziale di Zigeuner, zingaro). Sua madre riesce a mentire alle SS affermando che la figlia ha 16 anni ma è poco sviluppata e quindi ne dimostra meno, questo le permette di essere inserita nei pochi elementi del gruppo selezionati per il lavoro forzato. Le condizioni nel “campo zingaro” sono terrificanti per mancanza di igiene e denutrizione programmata. La mortalità è molto alta e colpisce innanzitutto i bambini. Il piccolo Ossi Stojka, 7 anni, muore di tifo e di stenti.
In tutto vengono deportati a Birkenau da almeno 14 Paesi diversi più di 23.000 Sinti e Rom, che muoiono quasi tutti di malattie, fame, esperimenti medici crudeli. Infine, da Berlino giunge ad Auschwitz l’ordine di “liquidare” completamente lo Zigeunerlager, assassinando nelle camere a gas i 3.000 superstiti. Il grande massacro avviene nella notte tra il 2 e il 3 agosto 1944, data che verrà poi considerata come centrale e simbolica nella memoria del genocidio di questo popolo.
Ceija Stojka resta prigioniera a Birkenau insieme alla mamma e alla sorella Katherine per oltre un anno (l’altra sorella Marie ad aprile 1944 viene trasferita a Ravensbrück). Le tre donne riescono a scampare alla distruzione del “campo zingaro” perché qualche settimana prima che tutti i prigionieri sinti e rom ancora in vita vengano avviati alle camere a gas, sono trasferite a Ravensbrück come prigioniere addette al lavoro forzato. Si salvano anche i due fratelli Hans e Karl che vengono inseriti in un gruppo di prigionieri inviati a Buchenwald e poi a Flossenbürg.
Agli inizi del 1945, Ceija e la mamma sono trasferite a Bergen Belsen, mentre le due sorelle sono spostate in altri campi.
La liberazione arriva il 15 aprile quando le truppe alleate britanniche fanno il loro ingresso a Bergen Belsen.
Dopo un lungo e penoso rientro a Vienna, Ceija e la madre si ricongiungono agli altri componenti famigliari. Seguono anni di silenzio pubblico sugli orrori del passato. Non solo Ceija e la sua famiglia, ma moltissimi sopravvissuti, soprattutto tra i sinti e i rom, preferiscono non raccontare quanto hanno dovuto patire, anche perché il genocidio di questo popolo sembra un evento dimenticato da tutti. Per molto tempo, le persecuzioni e le violenze perpetrate su questa minoranza sono rimaste assenti dai libri di storia, o, al massimo, racchiuse in una didascalia o trattate con un brevissimo cenno, quando venivano elencate le diverse categorie di vittime del nazionalsocialismo.
Ma a metà degli anni 1980, Ceija matura la decisione di provare ad esprimere l’esperienza drammatica vissuta ad Auschwitz e poi negli altri due campi dove era stata internata. Mentre il mondo sembra indifferente per la tragedia del popolo sinti e rom e continua a riservare a questa minoranza pregiudizi infamanti e misure di esclusione, Ceija prende carta e penna e racconta della sua infanzia perseguitata, della distruzione della sua vita famigliare e di quella della sua gente. Nel 1988 darà alle stampe il suo primo libro di memorie, Wir leben im Verborgenen. Erinnerungen einer Rom-Zigeunerin”, tradotto nel 2007 in italiano, a cui ne seguiranno altri tre. Questa testimonianza scritta, resa pubblica grazie a diverse traduzioni, fa di Ceija Stojkala prima sopravvissuta rom a scrivere del Porrajmos.
Contemporaneamente alla scrittura,Ceija si avvicina, da autodidatta, alla pittura e al disegno. Gli incubi del lager e le atrocità alle quali ha dovuto assistere sono una fonte di ispirazione obbligata: le immagini di morte del campo riemergono dal passato come demoni che non è più possibile tenere nascosti. I disegni e i dipinti di Ceija sono come l’urlo di liberazione di un’anima fortemente traumatizzata, soprattutto se si tiene in considerazione il fatto che l’esperienza del lager l’ha vissuta da bambina.
Ma nelle sue opere non ci sono solo violenza, morte e umiliazione perché Ceija dipinge anche la vita del suo popolo negli anni precedenti alle deportazioni.
In tutto, realizza più di mille quadri, dipingendo e disegnando fino al 2013, l’anno della sua morte, quando si spegne a Vienna dopo una lunga malattia.
Porajmos: un genocidio dimenticato
Per oltre mezzo secolo, le sofferenze e il genocidio dei sinti e dei rom sono stati dimenticati da tutti, e ancora oggi la memoria della loro persecuzione sotto il Terzo Reich occupa un posto marginale nelle commemorazioni e nel dibattito pubblico.
Ci sono diverse ragioni che spiegano questo oblio e questa reticenza nell’opinione pubblica, oltre che in parte della letteratura accademica: in primo luogo, rom e sinti affidano prevalentemente alla dimensione orale la narrazione delle proprie tradizioni e delle proprie tragedie, esprimendo il dolore e il ricordo delle persecuzioni attraverso la musica e l’arte, in minor misura alla scrittura. Rispetto alle testimonianze scritte dei sopravvissuti della Shoah, quelle dei reduci sinti e rom sono molto poche. Inoltre, questa minoranza è tuttora oggetto di pratiche discriminatorie e di una cultura del disprezzo che tende a favorirne l’isolamento e la segregazione ai margini della società. In molti Paesi europei, i rom e i sinti continuano a essere colpiti da stereotipi e da politiche xenofobe e fortemente razziste. Dipingerli in toto come individui pericolosi, dediti al furto (si pensi allo stereotipo dello “zingaro ladro di bambini”) e al crimine, sporchi al punto da trasmettere malattie, non fa che alimentarne la segregazione e la distanza sociale, determinando quindi, a livello generale, un atteggiamento di indifferenza per la loro storia e per la tragedia vissuta sotto il regime nazista.
Nei diversi processi intentati contri i gerarchi nazisti e i responsabili delle violenze di massa contro i civili, ad incominciare da quello di Norimberga alla fine della guerra, non ci fu mai spazio per ascoltare i superstiti rom e sinti come testimoni dell’accusa. Eppure, furono diverse decine di migliaia le famiglie rom e sinti assassinate col gas insieme agli ebrei, ad esempio nel centro di sterminio di Belzec (Polonia occupata), oppure fucilate in massa dai battaglioni Einsatzgruppen nei territori sovietici occupati, ma anche in Serbia e negli Stati baltici. Altre migliaia morirono per le disumane condizioni di internamento per iniziativa di governi alleati dei tedeschi, come la Romania o la Croazia. Le sofferenze di questa minoranza non solo non vennero mai indennizzate, ma nemmeno prese in considerazione
La Germania ha riconosciuto il crimine di massa perpetrato contro questa minoranza solo nel 1982, ammettendo le responsabilità del regime di Hitler. La prima commemorazione ufficiale si è svolta però nel 1994 a Washington, presso il Museo dell’Olocausto.
A Berlino, nell’ottobre 2012, accanto al Bundestag, è stato installato per iniziativa del governo tedesco un monumento commemorativo che ricorda il Porrajmos, opera dell’artista ebreo israeliano Dani Karavan.
Il memoriale è costituito da uno specchio d’acqua rotondo circondato da pietre rotte. Al centro galleggia una piattaforma triangolare su cui ogni giorno viene poggiato un fiore fresco. L’iscrizione sul monumento è tratta dalla poesia Auschwitz, scritta dal poeta rom italiano Santino Spinelli (in arte Alexian): “Volto affondato/ occhi spenti/ labbra fredde/ silenzio/ un cuore lacerato/ senza respiro/ senza parole/ senza lacrime”.
La giornata della memoria del genocidio dei Rom e dei Sinti, individuata nel 2 agosto, è stata proclamata nel 2015 dal Parlamento Europeo.
Il regime fascista e la persecuzione degli “zingari”
Anche in Italia, durante il regime fascista, le persone di origine sinti e rom sono state oggetto di misure discriminatorie, che il governo giustifica con esigenze di sicurezza interna e di igiene pubblica. Il primo provvedimento del governo di Mussolini è del febbraio 1926, quando viene ordinato il respingimento alla frontiera italiana di “zingari, saltimbanchi e somiglianti che cercassero in carovana o isolatamente di penetrare in Italia, anche se muniti di regolare passaporto». L’8 agosto dello stesso anno, il Ministero dell’Interno lega l’emanazione di quelle disposizioni al bisogno di epurare il territorio italiano dalla presenza di elementi considerati pericolosi per la collettività, vietando quindi l’ingresso alle carovane di nomadi. Fino al 1940, diversi gruppi di famiglie sinti e rom si vedono così respinte o arrestate, oppure sono ripetutamente espulse dall’Italia.
Un ulteriore sviluppo della politica di persecuzione degli “zingari” avviene dopo l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania, quando Arturo Bocchini, capo della polizia italiana, firma l’ordine dell’11 settembre 1940 col quale annulla la distinzione tra “zingari stranieri” e “zingari nazionali” e dispone l’immediato «rastrellamento e la concentrazione di zingari italiani e stranieri sotto rigorosa sorveglianza per porli in località adatte in ciascuna provincia».
L’ordine viene però eseguito solo parzialmente per l’opposizione dei comuni ad accoglierli sul loro territorio. In Italia i campi di concentramento riservati agli “zingari” sono cinque, di cui i più importanti sono tre: Boiano e Agnone, (in Molise) e Tossicia (in Abruzzo), anche se ci sono stati sinti e rom internati insieme ad altre categorie di prigionieri in campi destinati a rinchiudere i nemici del regime fascista.
Dopo l’8 settembre e con l’inizio dell’occupazione tedesca, molti campi dell’Italia centro-meridionale vengono smantellati, anche per l’arrivo degli alleati, e i prigionieri vengono liberati. Questo però non coincide automaticamente con la fine della persecuzione di tutti i sinti e i rom presenti nella Penisola. Ad esempio, è documentata la presenza di un piccolo gruppo nel campo di Gries, presso Bolzano, dove vengono rinchiusi in attesa di essere deportati.
La ricerca sul destino dei rom e dei sinti nel periodo dell'occupazione tedesca e della Repubblica Sociale è ancora scarna e molto frammentaria. Gli studi più rigorosi sono opera di pochi ricercatori come Mirella Karpati, Giovanna Boursier e Luca Bravi.
Per approfondire
Ceija Stojka, Forse sogno di vivere. Una bambina rom a Bergen Belsen, Firenze, Giuntina, 2007
Günter Lewy, La persecuzione nazista degli zingari, Torino, Einaudi, 2002
Luca Bravi, Matteo Bassoli, Il Porrajmos in Italia. La persecuzione di rom e sinti durante il fascismo, Città di Castello, Odoya, I libri di Emil, 2013
[1]“Zingaro” è un termine dispregiativo, per molti offensivo, usato dalla popolazione maggioritaria (quindi è un eteronimo, termine attribuito dall’esterno) per definire i Rom che costituisce il gruppo principale, di lingua romanes, accanto a etnie diverse, tra cui i Sinti, i Manouches e i Kale.
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