La contemporaneità lungo le rive dell’Adriatico orientale è stata segnata da gravi esplosioni di violenza politica, culminate nell’allontanamento forzato della quasi totalità del gruppo nazionale italiano dai suoi territori di insediamento storico passati alla Jugoslavia nel secondo dopoguerra. Tali violenze – che in alcuni casi, come quello delle foibe, hanno raggiunto una dimensione di massa – sono state studiate in maniera assai diseguale e soprattutto in un’ottica assai parziale. Spesso i singoli episodi sono stati considerati individualmente, altre volte in riferimento solo ad alcuni altri, selezionati ad arte. Soprattutto, l’analisi delle violenze novecentesche è stata condotta quasi sempre all’interno di una storia nazionale ben definita – prevalentemente quella italiana o quella jugoslava (slovena e croata) – suscitando così incomprensioni e deformazioni interpretative. Infatti, è solo applicando contemporaneamente punti di vista diversi, che si può sperare di comprendere le dinamiche di un territorio plurale, che nel corso del ‘900 oscillò fra diverse appartenenze statuali. Inoltre, le versioni offerte dalle singole storiografie nazionali non fanno che rafforzare le memorie divise già a suo tempo generate dai fatti e capaci di travalicare le generazioni. Può essere utile allora tentare, almeno per grandi linee, un approccio globale, che tenga conto sia dei fili di continuità che dei momenti di rottura: nei contesti, nei soggetti storici e nelle culture della violenza. La ricognizione, necessariamente sintetica e problematica, partirà dai precedenti in epoca asburgica per spingersi fino alla prima delle stragi italiane tuttora insolute del secondo dopoguerra, quella di Vergarolla.

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