Recensione di "Maus" (Art Spiegelman)

MAUS - Il racconto di un sopravvissuto
Art Spiegelman

Appena la bibliotecaria mi ha mostrato i libri disponibili sui testi proposti, MAUS mi ha colpito subito perché era diverso da tutti gli altri: era disegnato a fumetti. Probabilmente a qualcun altro non avrebbe fatto né caldo né freddo, o l’avrebbe considerato un semplice libro per bambini, una banalizzazione nei confronti di quegli eventi brutali da ricordare in ben altro modo, invece in me ha evocato una provocazione, mi ha portato a chiedermi, da buon lettore di fumetti, se questa metodologia di rappresentazione fosse in grado di riportare verosimilmente le sensazioni, gli avvenimenti, il senso di tragedia dell’Olocausto che la testimonianza di un sopravvissuto voleva trasmettere alle generazioni future, per evitare la terrificante ipotesi che la storia si ripeta. E dopo averlo letto non una, ma due volte, posso con sicurezza dire di sì. Perché è così bello, che dopo averlo letto una volta, viene quasi spontaneo rileggerlo anche una seconda, per non perdersi ogni minimo particolare, per cercare di cogliere i retroscena, i messaggi tra le righe, o anche semplicemente un nome o una parola che, se messi in un certo modo, possono cambiare il senso di una frase o di un intero episodio, e certe volte nella lettura sfuggono venendo presi per scontato. Cito, a proposito della particolare bellezza di questo libro, un commento di Umberto Eco posto in ultima pagina: “MAUS è una storia splendida. Ti prende e non ti lascia più. Quando due di questi topolini parlano d’amore, ci si commuove, quando soffrono si piange. A poco a poco si entra in questo linguaggio di vecchia famiglia dell’Europa orientale, in questi piccoli discorsi fatti di sofferenze, umorismo, beghe quotidiane, si è presi da un ritmo lento e incantatorio, e quando il libro è finito, si attende il seguito con la disperata nostalgia di essere stati esclusi da un universo magico”. MAUS tratta la vita di Vladek Spiegelman, un Ebreo Polacco, dai primi amori post adolescenziali, passando dal servizio di leva polacco, durante il quale venne fatto prigioniero dai Tedeschi, alla deportazione ad Auschwitz, per arrivare infine alla morte nella tanto sospirata America. A raccontarla è il figlio Art Spiegelman, noto fumettista americano, che ebbe l’originale intuizione di rappresentare gli Ebrei come dei topi, i Tedeschi come dei gatti, i Polacchi come dei maiali e così via, non togliendo nulla all’attendibilità del racconto; infatti potrebbe essere un modo per sdrammatizzare il fatto che gli Ebrei venissero chiamati dai Tedeschi “sporchi e luridi topi”; anche il fatto che durante la storia loro stessi incontrarono topi o altri animali come tali, testimonia che questa rappresentazione animale sia solo un fattore ideologico per favorire la comprensione in modo caricaturale. Un altro particolare molto rilevante nella stesura del libro, è che la storia racconta del figlio Artie, che dopo un’infanzia molto influenzata dal comportamento del padre diventa un famoso fumettista ed inizia ad intervistarlo con la volontà di disegnare un libro sulla storia della sua vita passata, in particolare la parte della guerra e della deportazione, in modo che tutti potessero sapere quello che egli ha passato, e inoltre anche gli squilibri che tutto ciò ha causato nella sua vita. Eh, già… perché non è finito tutto in quel non così lontano 1945, anzi: Auschwitz cambia profondamente, lascia un solco incolmabile nei sopravvissuti che portano dietro fino alla morte e non solo; infatti anche i figli dei sopravvissuti sentirono gli effetti di Auschwitz, eccome! Ad esempio Art, in uno dei numerosi intermezzi fra un racconto-flashback del padre e l’altro, nel corso di un dialogo con la moglie, che ritengo molto significativo, mostra tutta la condizione interiore di essere figlio di un sopravvissuto: “non riesco neppure a dare un senso al rapporto con mio padre, come posso dare un senso ad Auschwitz? All’Olocausto?”; inoltre non mancano i sensi di colpa verso i genitori, tanto da affermare : “so che è pazzesco, ma a volte avrei voluto essere ad Auschwitz con i miei per capire cosa hanno passato… il mio, credo sia un senso di colpa per aver avuto una vita più facile della loro”; poi racconta dei suoi incubi, della sua immaginazione contagiata dall’ombra dell’Olocausto in cui veniva trascinato via da scuola insieme agli altri ragazzi ebrei, oppure a volte immaginava che dalla doccia uscisse Zyklon-B anziché acqua; ma l’ossessione più grande e significativa di Art è sicuramente Richieu. Richieu è, o meglio dire era, suo fratello maggiore, nato pochi anni prima della guerra e che non aveva potuto conoscere perché durante la deportazione nei campi la balia a cui era stato affidato aveva preferito l’avvelenamento dolce, ad una tremenda morte nella camera a gas; un “fratello fantasma” come lo definiva Artie. Proprio per questo fin da piccolo gli ha sempre provocato un forte disagio, in particolare una foto, l’unica tra l’altro, appesa sul letto dei genitori: “la foto non faceva mai i capricci, non si cacciava mai nei guai… era un bambino ideale ed io un rompiballe, non potevo competere”, per lui era come un rimprovero, non ne parlavano apertamente, perciò ogni avvenimento della sua vita era seguita dalla domanda “Richieu l’avrebbe fatto meglio?”, e infatti secondo Art “Richieu sarebbe diventato dottore e avrebbe sposato una ricca ragazza ebrea… lo stronzo”; commento a parte, è veramente impressionante tutto quello che una foto è riuscita ad evocare. Alla conclusione del dialogo, abbattuto dai ricordi e dai pensieri dei genitori, dice: “mi sento così inadeguato a ricostruire una realtà peggiore dei miei sogni più reconditi. E cercare di farlo con un fumetto! Credo sia un’impresa superiore alle mie forze, forse dovrei lasciar perdere”, conturbandosi sul fatto che la realtà è troppo complessa per un fumetto, c’è troppo da tralasciare o distorcere. Ora come ora, a conoscenza dei fatti e avendo letto il libro, mi piace pensare che artie abbia trovato la forza dentro di se, e sia riuscito a dimostrare il contrario. Nel libro gli eventi non vengono descritti in ordine cronologico, però la loro collocazione (di ognuno di essi) ha un preciso significato, per esempio un’altra parte abbastanza importante, raffigura Art dopo la morte del padre, durante la stesura del libro, che assalito da giornalisti e proposte d’affari, man mano ritorna bambino nel vero senso della parola e scoppia in un pianto liberatorio, esausto ed esasperato. Così arriviamo all’incontro con lo “strizzacervelli”, un Ebreo sopravvissuto a Terezin, grazie al quale espone la sua situazione interiore, il suo rimaner bloccato nei confronti del mondo esterno, e riaffiorano le liti con suo padre, il fatto che non sapeva far bene nulla come lui, e allora viene fuori il vero disagio, perché diventando fumettista (forse una delle poche cose che non sapeva fare il padre) ebbe successo e dimostrò che il padre aveva torto. Proprio per questo spuntò la questione del “Sentirsi in colpa per essere sopravvissuto”, dei disagi che questo aveva provocato al padre… “Non sono sopravvissuti i migliori. È stato tutto casuale.”. L’ultimo pezzo che vorrei citare, è il fumetto all’interno del fumetto, l’unico che rappresenta esseri umani veri e propri, e racconta in maniera abbastanza cruda ed enigmatica del suicidio della madre, cogliendo i particolari delle proprie reazioni, quelle del padre, e della gente presente all’avvenimento. Tutto ciò,è inserito nel contesto, perché nella storia suo padre trova questo fumetto, e si commuove al vedere la foto della moglie in copertina, il che rievoca anche una serie di ricordi piacevoli e non, di vita vissuta. Durante la narrazione, si intravede anche la condizione politica della Polonia che, dopo la guerra lampo combattuta contro la Germania (a cui tra l’altro partecipò anche Vladek) venne frantumata in tre parti: protettorato, Reich e parte annessa alla Russia, avvenimento che segnò la fine della libertà di tutti gli Ebrei Polacchi e non solo, considerando la costruzione di decine di campi di concentramento e sterminio dove morirono milioni di persone. Il motivo per il quale i Polacchi nel libro vengono disegnati come maiali, si riassume nel fatto che la maggior parte di essi verso gli ebrei si comportò come tale, voltando loro le spalle proprio nel momento del bisogno, o addirittura approfittando della propria posizione per truffarli e denunciarli ai tedeschi; stessa identica cosa accadde dopo la guerra, infatti molti dei superstiti che rivendicavano le proprie case occupate dai Polacchi venivano intimoriti ad andarsene, pestati a sangue e infine uccisi o impiccati. Per ultimo, ma non per ordine di importanza, vorrei sottolineare l’accuratezza del modo di tradurre il linguaggio di Vladek. Mentre nel corso della storia raccontata non vi era bisogno di differenziazioni, in quanto la lingua era quella comune, polacca, tedesca o yiddish, nel tradurre invece la lingua dopo il trasferimento in America, considerando la perfetta pronuncia di Artie (essendo nato lì) per Vladek il traduttore ha ritenuto opportuno utilizzare un “inglese che ricalca le strutture sintattiche del polacco, colorito da alcuni elementi Yiddish”, come specifica nella nota iniziale,quindi va apprezzata la particolarità di questa parlata un po’ frammentaria, da immaginare come “un russo emigrato in Italia”. Ci sarebbero così tante scene da mostrare che dovrei consegnare il libro, perciò scelgo quella che in particolare mi ha fatto venire i brividi, l’ultima vignetta del libro in cui Vladek ha appena finito di raccontare la storia ad Artie, e in un misto tra stanchezza, poca lucidità mentale, vecchi ricordi riaffiorati, e un russo smozzicato, senza pensarci troppo dice: “sono stanco di parlare Richieu, e ho raccontato bastanza storie, per ora”

Recensione di Mattia Mancini, Istituto Tecnico per Geometri “O.Belluzzi”